PAROLE CHE DISTURBANO
/Au-to-no-mìa/
Carissimi,
questa lettera è per voi che non avete potuto partecipare all’ultimo incontro, ma anche per voi che eravate presenti e che avete condiviso con me il desiderio di rivederlo e riascoltarlo.
Autonomia è una parola che disturba. Può essere accompagnato da molteplici aggettivi che a loro volta ne mettono in evidenza altrettante caratteristiche peculiari tra le molte possibili. Naturalmente io ne parlerò dal punto di vista psicologico, ma vorrei che fosse chiaro da subito che anche le altre facce dell’autonomia (economica, lavorativa, operativa, fisica, giuridica etc.) hanno una loro rilevanza dalla quale non è possibile prescindere se vogliamo affrontare il tema in modo autentico e profondo.
Quando parlo di autonomia mi riferisco alla capacità di prendersi cura di sé e della propria vita e di fare il meglio che si può con quello che si ha e con quello che si è in un dato momento, non con quello che si vorrebbe avere o che si vorrebbe essere, il che, tradotto in altri termini, coincide con la capacità di ascoltarsi, di riconoscere i propri bisogni e soddisfarli, non di rado a costo di scelte, e quindi di rinunce, anche tra i bisogni stessi. L’autonomia non è mai assoluta, per nessuno, e mi preme che non corriate il rischio di confonderla con l’autarchia, ovvero con la sensazione di bastare a se stessi, perché il bisogno dell’altro è una condizione che appartiene a tutti e per tutta la vita. Capire di avere bisogno e chiedere aiuto, contrariamente a quanto si possa erroneamente pensare, è segno di grande forza e di autonomia, perché implica la capacità, di cui parlavo prima, di prendersi cura di sé.
Nella stanza di terapia se le cose funzionano si fa sempre anche un lavoro nella direzione dell’autonomia, ma le cose non sempre funzionano proprio perché si tratta di una realtà che disturba, tenuta ad una distanza di sicurezza giustificata anche a se stessi con le più svariate e comprensibili argomentazioni, che però si tramutano in un ostacolo nel lavoro di cura. Sì, un ostacolo o per meglio dire, mi sia concessa un’espressione tecnica specifica, una resistenza al cambiamento. Cerco di spiegarmi meglio. Ciò che blocca il percorso verso l’autonomia e l’assunzione di un atteggiamento di responsabilità nei confronti della propria vita, e dunque anche nei confronti del cambiamento che possiamo generare al suo interno, è il mantenimento di una posizione immatura, di pretesa, di rabbia, di rivendicazione nei confronti di quello che che gli altri o la vita ci hanno negato, in un passato più o meno remoto, e che sarebbe stato nostro diritto avere ed è, dunque, tutt’ora nostro diritto pretendere. Naturalmente non si tratta di prese di posizione necessariamente o sempre collocate su un piano conscio, tuttavia il lavoro clinico profondo su di sé le fa emergere e non sempre queste parti vengono ammesse e accolte come zone d’ombra su cui lavorare. È più facile che vengano negate, giustificate, addirittura rivendicate come naturali conseguenze delle ingiustizie subite. Nella migliore delle ipotesi la psicoterapia trasforma questo atteggiamento difensivo e di pretesa, nella peggiore il paziente potrebbe anche voler interrompere il percorso se o proprio perché vede delusa la sua aspettativa inconscia di sentirsi dire che quello giusto/bravo/buono/sfortunato, quella giusta/brava/buona/sfortunata sei tu, adesso ci concentriamo per cambiare il mondo visto che tu non ne hai bisogno. Aspettativa che nutriamo forse tutti, sempre. E quante volte ne abbiamo ben donde. E dunque lo dico in modo molto chiaro: non si tratta di negare la realtà. Bisogna nominarla la realtà. Prendere posizione. Coltivare la capacità di indignarsi. Imparare a credere a quello che si sente, si vede, si intuisce. Poi verificate, certo, ma prima date fiducia alle vostre sensazioni profonde. Urlate. Piangete. Disperatevi. Interpellatelo questo Dio, questa vita, questo universo e fatelo come vi pare. Dopo, però, alzatevi, prendete il vostro lettino e camminate. Il riferimento è evidentemente alla parabola della guarigione del paralitico narrata nei vangeli, ma merita che si spenda qualche parola in più.
Comincio con un antefatto divertente che vi farà intuire la predilezione che nutro per questa narrazione, e parlo di narrazione perché sapete che ricorro ai testi biblici non per il contenuto di fede in senso stretto, bensì per la valenza terapeutica metaforica contenuta al loro interno. Ma ecco l’antefatto: io ho frequentato una scuola materna che era gestita da suore. Ne ho un buon ricordo, un po’ vago ormai, ma buono. La mia suora preferita era suor Pia: ferma, autorevole, rigorosa ma calda. La madre di tutte le suore/maestre. Mi fa piacere onorarne qui il ricordo. Ebbene in questa scuola avevano l’abitudine di farci fare grandi disegni, ma proprio grandi…! Quindi tornavamo a casa con delle vere e proprie opere d’arte in formato poster, che poi nel mio caso sono state anche incorniciate a dovere, come d'altronde l’opera d’arte richiedeva...! Un giorno sono rientrata con un poster che rappresentava proprio il miracolo della guarigione del paralitico operata da Gesù, o almeno credo... Penso, infatti, sia stato chiaro a tutti di quali tipo di abilità fossi totalmente carente, ma questa è un’altra storia. Non riesco a non sorridere tutte le volte che lo guardo, perché ricordo che non sapendo come rendere l’idea del passaggio salvifico e magico dal lettino alla deambulazione autonoma, ho cercato di disegnare un uomo che era improvvisamente diventato così veloce nel camminare, che le sue gambe era divenute indistinguibili per l’accelerazione acquisita, e ho reso l'idea del movimento con una sorta di palla infuocata collocata al di sotto del busto, come nel migliore dei cartoni animati giapponesi! Insomma, da paralitico a maratoneta!
Ma nel testo dei vangeli le cose vanno in modo diverso, molto diverso. Gesù dopo aver guarito il paralitico dice queste parole: ‘… alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua’ (Lc 5, 17-26). Guarire, curare, divengono dunque sinonimo di aiutare l’altro a riconquistare la sua autonomia, intesa non solo testualmente come capacità di camminare, ma anche come capacità di camminare portando il peso del lettuccio, ovvero il peso della propria sofferenza, del proprio limite, della propria fragilità. Guarire significa imparare a stare nella nostra vita, ad abitarla e a sceglierla, facendo tutto il possibile per stare bene, perché siamo al mondo per stare bene, per essere felici, ma per divenirlo dobbiamo imparare a portare il peso del nostro dolore, proprio come fa il paralitico, che, specifica il racconto, esegue l’ordine, si alza, prende il lettuccio e si incammina verso casa sua, invece di pretendere di essere liberato completamente da ogni peso o di lamentarsi per tutto il tempo passato nella paralisi.
C’è ancora un aspetto che mi preme sottolineare.
Il paralitico viene portato da un gruppo di quattro persone che scoperchiano un tetto per poterlo calare, poiché una quantità enorme di folla impedisce loro di avvicinarsi a Gesù, ed proprio per la fede di questi quattro tenaci amici che mettono a disposizione tutto che Gesù decide di fare il miracolo, restituendo però al malato sia la capacità di camminare, che quella di riappropriarsi della responsabilità sulla propria vita. Mi commuove la determinazione di questo gruppo di persone che prestano se stesse, mi tocca nel profondo quanto la guarigione. Perché nessuno si salva da solo. Non smetterò mai di ripeterlo.
L’autonomia di cui parlo non è innata, non è scontata, non è mai data una volta per tutte, ed è il frutto di una scelta quotidiana. La associo più ad una strada da percorrere che ad una meta definitiva da raggiungere. Ogni processo educativo e di cura dovrebbe avere come obiettivo quello di mettere l’altro nella condizione di utilizzare al meglio le capacità e le risorse che ci sono, cercando di scegliere la vita possibile, sempre e comunque. Dico che l’autonomia non è scontata e non è mai data una volta per tutte, perché a ricordarmelo arrivano puntuali le immagini della bambina che sono stata e dell’anziana che sarò, le voci di donne con le quali lavoro quotidianamente alle quali la vita ha riservato disabilità intellettiva, sofferenza psicologica, disturbi psichiatrici e troppo spesso nessuna relazione significativa, le storie di cronaca di chi da un momento all’altro si ritrova a perdere in maniera incomprensibile e inaccettabile un’autonomia fino a poco prima data per scontata, le infanzie ferite e oltraggiate. Siamo chiamati a lavorare sulla nostra autonomia in primo luogo per essere felici, in secondo luogo per non pesare sugli altri che a loro volta hanno il loro dolore da portare, ma anche per metterci al servizio di coloro che si vedono negata questa possibilità, e magari dalla nascita. Siamo chiamati a prestare la nostra mente, il nostro corpo, il nostro cuore e a divenire la mente, il corpo e il cuore dell’altro che non ce la fa, perché l’altro siamo noi.
La commozione alla quale ho accennato poche righe fa è la stessa che ho provato leggendo, anzi precipitando nella lettura de Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì (2021).
È un libro scritto bene, benissimo.
È un libro che lascia nel cuore la fiducia in questa umanità, la sensazione di non essere soli al mondo e in balia di quello che non abbiamo scelto e la cieca fiducia che troveremo chi saprà farsi largo in mezzo alla folla e calare il lettuccio per noi se un giorno ne avremo bisogno.
È la benedizione della vita, che vince su ogni maledizione.
Ascoltate:
Quanto più il dolore ti schiaccia tanto più la reazione della vita è forte. Come se il male premesse su una molla e ne saltasse fuori il bene. Per chi ha la fortuna di avere una vita serena questo è incomprensibile, ma per noi che siamo attaccati dalla malattia e dalla morte la vita diventa un bene prezioso da annusare e spolpare fino all’osso. […] Voglio mangiarmi tutto di questa vita. E quando piango lo faccio fino alla fine delle mie lacrime. […] Non mi aspetto niente da nessuno, non pretendo più che la gente mi somigli o si comporti secondo i miei piani. Abbraccio senza aspettarmi di essere ricambiata e amo senza pretendere che dall’altra parte ci sia lo stesso slancio. Ho imparato a riconoscere i problemi degli altri e a rispettare senza pensare assurdamente che i miei siano superiori. Ascolto. Cerco di circondarmi di persone che non provino un briciolo di pietà né una sensazione di inferiorità. Insomma, cerco il vero.
Sofia è una bambina, questo ci ha costretti a sorridere anche quando non ne avevamo la forza. Ci ha costretti a cantare per ore, a leggere favole, a essere il suo prolungamento, il suo corpo. Quello che inizialmente sentivamo come una forzatura, una condizione difficile da mantenere in un momento di dolore, ha invece insegnato ai nostri cervelli a tracciare una strada alternativa, ha creato nuove sinapsi, ha prodotto ossitocina. Quell’esercizio di forzare la felicità alla fine l’ha resa possibile. (pag. 65)
E ancora:
[…] Non siamo eroi ma compiamo azioni eroiche. Non siamo sopravvissuti quando torniamo a fare ciò che amavamo prima del cancro. Non siamo fuori dall’incendio di un grattacielo, giù dalla nave che affonda, riemersi dalle macerie di un terremoto. No. Siamo nel grattacielo, sulla nave e sotto le macerie, ma abbiamo imparato a prepararci il caffè tra le fiamme e a ridere mentre scavano per salvarci. Io ho imparato a mettere le scarpe da calcio a un bambino [Bruno] che non può più correre e a gestire il passaggio tra attaccante e portiere. Quello che per tutti è solo sfiga, che per noi è solo sfiga, diventa tutto ciò che resta. L’attimo diventa tutto. Un ultimo giorno? Un’ultima estate? Diventiamo pastori erranti che interrogano lune silenziose. Cominciamo dialoghi profondi con noi stessi, con Dio. Scopriamo ciò che tutti dovrebbero scoprire senza passare dal cancro: l’essenzialità della vita. E quando la scopriamo non vorremmo mai morire e mai lasciare andare (pag. 135).
E quell’esercizio di forzare la felicità che alla fine la rende possibile (Tarì, 2021), forse, è proprio la ricerca, l'accoglienza e la scelta della vita possibile qui e ora, così come siamo.
Maria Grazia
Note personali
Mi chiamo Maria Grazia Calabrò.
Sono psicologa, psicoterapeuta e specialista in psicologia clinica.
Prima di diventarlo ho conseguito una laurea in Scienze della Comunicazione (ind. Comunicazioni di massa): comunicare è tutt’ora una mia grande passione. Anche una necessità.
Lavoro a Torino e online, con adulti, anziani, coppie e adolescenti.
Mi occupo di supervisione organizzativa e clinica a gruppi e singoli, e di formazione.
Tutelo in massimo grado la privacy di tutti, anche la mia, dunque non troverete mai nessun riferimento, neanche indiretto o implicito, ai miei/alle mie pazienti, e a tutte le situazioni che seguo in supervisione. Di conseguenza i testi che scrivo possono contenere riferimenti a fatti o persone frutto di fantasia, mentre saranno sempre vere e reali le riflessioni psicologiche e introspettive che da essi scaturiscono, in quanto ‘mie’.
Riferimenti bibliografici:
Tarì M., IL PRECIPIZIO DELL’AMORE. SOLO APPUNTI DI UNA MADRE, Edizioni Mondadori, 2021.
Contatti:
Maria Grazia Calabrò
Via san Secondo 7 bis
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Cell. 3385296452
E-mail mgcalabro@hotmail.com
Instagram: @maria_grazia_calabro.psy
Data pubblicazione: 14 aprile 2021
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