giovedì 14 aprile 2022

PAROLE CHE DISTURBANO: /Au-to-no-mìa/

 

PAROLE CHE DISTURBANO

/Au-to-no-mìa/



Carissimi,

questa lettera  è per voi che non avete potuto partecipare all’ultimo incontro, ma anche per voi che eravate presenti e che avete condiviso con me il desiderio di rivederlo e riascoltarlo. 

Autonomia è una parola che disturba. Può essere accompagnato da molteplici aggettivi che a loro volta ne mettono in evidenza altrettante caratteristiche peculiari tra le molte possibili. Naturalmente io ne parlerò dal punto di vista psicologico, ma vorrei che fosse chiaro da subito che anche le altre facce dell’autonomia (economica, lavorativa, operativa, fisica, giuridica etc.) hanno una loro rilevanza dalla quale non è possibile prescindere se vogliamo affrontare il tema in modo autentico e profondo. 

Quando parlo di autonomia mi riferisco alla capacità di prendersi cura di sé e della propria vita e di fare il meglio che si può con quello che si ha e con quello che si è in un dato momento, non con quello che si vorrebbe avere o che si vorrebbe essere, il che, tradotto in altri termini, coincide con la capacità di ascoltarsi, di riconoscere i propri bisogni e soddisfarli, non di rado a costo di scelte, e quindi di rinunce, anche tra i bisogni stessi. L’autonomia non è mai assoluta, per nessuno, e mi preme che non corriate il rischio di confonderla con l’autarchia, ovvero con la sensazione di bastare a se stessi, perché il bisogno dell’altro è una condizione che appartiene a tutti e per tutta la vita. Capire di avere bisogno e chiedere aiuto, contrariamente a quanto si possa erroneamente pensare, è segno di grande forza e di autonomia, perché implica la capacità, di cui parlavo prima, di prendersi cura di sé. 

Nella stanza di terapia se le cose funzionano si fa sempre anche un lavoro nella direzione dell’autonomia, ma le cose non sempre funzionano proprio perché si tratta di una realtà che disturba, tenuta ad una distanza di sicurezza giustificata anche a se stessi con le più svariate e comprensibili argomentazioni, che però si tramutano in un ostacolo nel lavoro di cura. Sì, un ostacolo o per meglio dire, mi sia concessa un’espressione tecnica specifica, una resistenza al cambiamento. Cerco di spiegarmi meglio. Ciò che blocca il percorso verso l’autonomia e l’assunzione di un atteggiamento di responsabilità nei confronti della propria vita, e dunque anche nei confronti del cambiamento che possiamo generare al suo interno, è il mantenimento di una posizione immatura, di pretesa, di rabbia, di rivendicazione nei confronti di quello che che gli altri o la vita ci hanno negato, in un passato più o meno remoto, e che sarebbe stato nostro diritto avere ed è, dunque, tutt’ora nostro diritto pretendere. Naturalmente non si tratta di prese di posizione necessariamente o sempre collocate su un piano conscio, tuttavia il lavoro clinico profondo su di sé le fa emergere e non sempre queste parti vengono ammesse e accolte come zone d’ombra su cui lavorare. È più facile che vengano negate, giustificate, addirittura rivendicate come naturali conseguenze delle ingiustizie subite. Nella migliore delle ipotesi la psicoterapia trasforma questo atteggiamento difensivo e di pretesa, nella peggiore il paziente potrebbe anche voler interrompere il percorso se o proprio perché vede delusa la sua aspettativa inconscia di sentirsi dire che quello giusto/bravo/buono/sfortunato, quella giusta/brava/buona/sfortunata sei tu, adesso ci concentriamo per cambiare il mondo visto che tu non ne hai bisogno. Aspettativa che nutriamo forse tutti, sempre. E quante volte ne abbiamo ben donde. E dunque lo dico in modo molto chiaro: non si tratta di negare la realtà. Bisogna nominarla la realtà. Prendere posizione. Coltivare la capacità di indignarsi. Imparare a credere a quello che si sente, si vede, si intuisce.  Poi verificate, certo, ma prima date fiducia alle vostre sensazioni profonde. Urlate. Piangete. Disperatevi. Interpellatelo questo Dio, questa vita, questo universo e fatelo come vi pare. Dopo, però, alzatevi, prendete il vostro lettino e camminate. Il riferimento è evidentemente alla parabola della guarigione del paralitico narrata nei vangeli, ma merita che si spenda qualche parola in più.

Comincio con un antefatto divertente che vi farà intuire la predilezione che nutro per questa narrazione, e parlo di narrazione perché sapete che ricorro ai testi biblici non per il contenuto di fede in senso stretto, bensì per la valenza terapeutica metaforica contenuta al loro interno. Ma ecco l’antefatto: io ho frequentato una scuola materna che era gestita da suore. Ne ho un buon ricordo, un po’ vago ormai, ma buono. La mia suora preferita era suor Pia: ferma, autorevole, rigorosa ma calda. La madre di tutte le suore/maestre. Mi fa piacere onorarne qui il ricordo. Ebbene in questa scuola avevano l’abitudine di farci fare grandi disegni, ma proprio grandi…! Quindi tornavamo a casa con delle vere e proprie opere d’arte in formato poster, che poi nel mio caso sono state anche incorniciate a dovere, come d'altronde l’opera d’arte richiedeva...! Un giorno sono rientrata con un poster che rappresentava proprio il miracolo della guarigione del paralitico operata da Gesù, o almeno credo... Penso, infatti, sia stato chiaro a tutti di quali tipo di abilità fossi totalmente carente, ma questa è un’altra storia. Non riesco a non sorridere tutte le volte che lo guardo, perché ricordo che non sapendo come rendere l’idea del passaggio salvifico e magico dal lettino alla deambulazione autonoma, ho cercato di disegnare un uomo che era improvvisamente diventato così veloce nel camminare, che le sue gambe era divenute indistinguibili per l’accelerazione acquisita, e ho reso l'idea del movimento con una sorta di palla infuocata collocata al di sotto del busto, come nel migliore dei cartoni animati giapponesi! Insomma, da paralitico a maratoneta! 

Ma nel testo dei vangeli le cose vanno in modo diverso, molto diverso. Gesù dopo aver guarito il paralitico dice queste parole: ‘… alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua’ (Lc 5, 17-26). Guarire, curare, divengono dunque sinonimo di aiutare l’altro a riconquistare la sua autonomia, intesa non solo testualmente come capacità di camminare, ma anche come capacità di camminare portando il peso del lettuccio, ovvero il peso della propria sofferenza, del proprio limite, della propria fragilità. Guarire significa imparare a stare nella nostra vita, ad abitarla e a sceglierla, facendo tutto il possibile per stare bene, perché siamo al mondo per stare bene, per essere felici, ma per divenirlo dobbiamo imparare a portare il peso del nostro dolore, proprio come fa il paralitico, che, specifica il racconto, esegue l’ordine, si alza, prende il lettuccio e si incammina verso casa sua, invece di pretendere di essere liberato completamente da ogni peso o di lamentarsi per tutto il tempo passato nella paralisi.

C’è ancora un aspetto che mi preme sottolineare. 

Il paralitico viene portato da un gruppo di quattro persone che scoperchiano un tetto per poterlo calare, poiché una quantità enorme di folla impedisce loro di avvicinarsi a Gesù, ed proprio per la fede di questi quattro tenaci amici che mettono a disposizione tutto che Gesù decide di fare il miracolo, restituendo però al malato sia la capacità di camminare, che quella di riappropriarsi della responsabilità sulla propria vita. Mi commuove la determinazione di questo gruppo di persone che prestano se stesse, mi tocca nel profondo quanto la guarigione. Perché nessuno si salva da solo. Non smetterò mai di ripeterlo.

L’autonomia di cui parlo non è innata, non è scontata, non è mai data una volta per tutte, ed è il frutto di una scelta quotidiana. La associo più ad una strada da percorrere che ad una meta definitiva da raggiungere. Ogni processo educativo e di cura dovrebbe avere come obiettivo quello di mettere l’altro nella condizione di utilizzare al meglio le capacità e le risorse che ci sono, cercando di scegliere la vita possibile, sempre e comunque. Dico che l’autonomia non è scontata e non è mai data una volta per tutte, perché a ricordarmelo arrivano puntuali le immagini della bambina che sono stata e dell’anziana che sarò, le voci di donne con le quali lavoro quotidianamente alle quali la vita ha riservato disabilità intellettiva, sofferenza psicologica, disturbi psichiatrici e troppo spesso nessuna relazione significativa, le storie di cronaca di chi da un momento all’altro si ritrova a perdere in maniera incomprensibile e inaccettabile un’autonomia fino a poco prima data per scontata, le infanzie ferite e oltraggiate. Siamo chiamati a lavorare sulla nostra autonomia in primo luogo per essere felici, in secondo luogo per non pesare sugli altri che a loro volta hanno il loro dolore da portare, ma anche per metterci al servizio di coloro che si vedono negata questa possibilità, e magari dalla nascita. Siamo chiamati a prestare la nostra mente, il nostro corpo, il nostro cuore e a divenire la mente, il corpo e il cuore dell’altro che non ce la fa, perché l’altro siamo noi.

La commozione alla quale ho accennato poche righe fa è la stessa che ho provato leggendo, anzi precipitando nella lettura de Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì (2021).

È un libro scritto bene, benissimo.

È un libro che lascia nel cuore la fiducia in questa umanità, la sensazione di non essere soli al mondo e in balia di quello che non abbiamo scelto e la cieca fiducia che troveremo chi saprà farsi largo in mezzo alla folla e calare il lettuccio per noi se un giorno ne avremo bisogno.

È la benedizione della vita, che vince su ogni maledizione.

Ascoltate:

Quanto più il dolore ti schiaccia tanto più la reazione della vita è forte. Come se il male premesse su una molla e ne saltasse fuori il bene. Per chi ha la fortuna di avere una vita serena questo è incomprensibile, ma per noi che siamo attaccati dalla malattia e dalla morte la vita diventa un bene prezioso da annusare e spolpare fino all’osso. […] Voglio mangiarmi tutto di questa vita. E quando piango lo faccio fino alla fine delle mie lacrime. […] Non mi aspetto niente da nessuno, non pretendo più che la gente mi somigli o si comporti secondo i miei piani. Abbraccio senza aspettarmi di essere ricambiata e amo senza pretendere che dall’altra parte ci sia lo stesso slancio. Ho imparato a riconoscere i problemi degli altri e a rispettare senza pensare assurdamente che i miei siano superiori. Ascolto. Cerco di circondarmi di persone che non provino un briciolo di pietà né una sensazione di inferiorità. Insomma, cerco il vero.

Sofia è una bambina, questo ci ha costretti a sorridere anche quando non ne avevamo la forza. Ci ha costretti a cantare per ore, a leggere favole, a essere il suo prolungamento, il suo corpo. Quello che inizialmente sentivamo come una forzatura, una condizione difficile da mantenere in un momento di dolore, ha invece insegnato ai nostri cervelli a tracciare una strada alternativa, ha creato nuove sinapsi, ha prodotto ossitocina. Quell’esercizio di forzare la felicità alla fine l’ha resa possibile. (pag. 65)


E ancora:


[…] Non siamo eroi ma compiamo azioni eroiche. Non siamo sopravvissuti quando torniamo a fare ciò che amavamo prima del cancro. Non siamo fuori dall’incendio di un grattacielo, giù dalla nave che affonda, riemersi dalle macerie di un terremoto. No. Siamo nel grattacielo, sulla nave e sotto le macerie, ma abbiamo imparato a prepararci il caffè tra le fiamme e a ridere mentre scavano per salvarci. Io ho imparato a mettere le scarpe da calcio a un bambino [Bruno] che non può più correre e a gestire il passaggio tra attaccante e portiere. Quello che per tutti è solo sfiga, che per noi è solo sfiga, diventa tutto ciò che resta. L’attimo diventa tutto. Un ultimo giorno? Un’ultima estate? Diventiamo pastori erranti che interrogano lune silenziose. Cominciamo dialoghi profondi con noi stessi, con Dio. Scopriamo ciò che tutti dovrebbero scoprire senza passare dal cancro: l’essenzialità della vita. E quando la scopriamo non vorremmo mai morire e mai lasciare andare (pag. 135).


E quell’esercizio di forzare la felicità che alla fine la rende possibile (Tarì, 2021), forse, è proprio la ricerca, l'accoglienza e la scelta della vita possibile qui e ora, così come siamo.


Maria Grazia



Note personali

Mi chiamo Maria Grazia Calabrò.

Sono psicologa, psicoterapeuta e specialista in psicologia clinica.

Prima di diventarlo ho conseguito una laurea in Scienze della Comunicazione (ind. Comunicazioni di massa): comunicare è tutt’ora una mia grande passione. Anche una necessità.

Lavoro a Torino e online, con adulti, anziani, coppie e adolescenti.

Mi occupo di supervisione organizzativa e clinica a gruppi e singoli, e di formazione.

Tutelo in massimo grado la privacy di tutti, anche la mia, dunque non troverete mai nessun riferimento, neanche indiretto o implicito, ai miei/alle mie pazienti, e a tutte le situazioni che seguo in supervisione. Di conseguenza i testi che scrivo possono contenere riferimenti a fatti o persone frutto di fantasia, mentre saranno sempre vere e reali le riflessioni psicologiche e introspettive che da essi scaturiscono, in quanto ‘mie’.


Riferimenti bibliografici:

Tarì M., IL PRECIPIZIO DELL’AMORE. SOLO APPUNTI DI UNA MADRE,  Edizioni Mondadori, 2021.


Contatti:

Maria Grazia Calabrò

Via san Secondo 7 bis

10128 Torino

Cell. 3385296452

E-mail mgcalabro@hotmail.com

Instagram: @maria_grazia_calabro.psy



Data pubblicazione: 14 aprile 2021








sabato 29 gennaio 2022

PAROLE CHE DISTURBANO /Di-sci-plì-na/

 PAROLE CHE DISTURBANO

/Di-sci-plì-na/

Cara lettrice,

grazie per i Suoi rimandi così attenti, così profondi, così puntuali. Mi sento onorata di passaggi come il Suo tra le pagine di questo blog, e del tempo che scegliete di dedicare all’ascolto o alla lettura delle mie parole. Provo un misto di emozioni che vanno da un profondo e crescente senso di responsabilità, alla voglia di bene e di far bene.

Grazie è una bella parola, una parola che in linea di massima dovrebbe evocare buone sensazioni, nell’ascoltarla come nel pronunciarla. Evocazione di buone sensazioni e facilità d’uso sono tuttavia cose molto diverse, e, senza voler approfondire qui ed ora, questa precisazione ci aiuta a capire come il rapporto con ciascuna parola possa per svariate ragioni essere unico e specifico per ciascuno di noi, ragioni indagabili ma insindacabili. Quanti faticano a dire grazie, per esempio? Quanti provano imbarazzo o disagio nel sentirsi dire grazie? Quante volte non sappiamo cosa rispondere ad un cenno di gratitudine dell’altro?

Tuttavia è innegabile che esistano parole che con maggiore probabilità tendano ad essere più ostiche e  più difficili da metabolizzare rispetto ad altre

Le parole sono cosa viva: trasformano e ci trasformano, ed è per questo che dobbiamo maneggiarle con cura, non esagerare in eccesso o in difetto con la posologia, perché potrebbe avere effetti indesiderati sulle nostre anime.

Tuttavia è bene ricordare che la loro dimensione evocativa non è assoluta e non rappresenta un assoluto, per nessuno.

Liberi tutti, sempre.

Mi spiego meglio.

Ho creduto per molto tempo che dare nomi alle cose fosse fondamentale. E lo credo tutt’ora. Mi vengono in mente molti esempi: il nome proprio, in primis, ovvero la parola che ci viene donata quando iniziamo il nostro viaggio e che ci ricorda che abbiamo un’identità, che siamo stati desiderati e pensati in un certo modo; o il nome proprio che qualcuno si trova a cambiare nel corso della sua vita, perché rispecchi il proprio modo di sentirsi e di essere; la parola attraverso la quale si esplicita una diagnosi; la parola con la quale definiamo la nostra emozione, il nostro ruolo, la natura di una relazione, la richiesta che facciamo, l’aiuto che chiediamo, il dolore che proviamo. Esercitarsi e predisporsi ad un uso variegato e attento delle parole è un atto di rispetto e di amore per se stessi e per gli altri, che tra i molti effetti porta spesso con sé quello di una comunicazione più profonda e riuscita.

Tuttavia quasi mai la realtà può essere completamente compresa all’interno di una parola, categoria o etichetta, per quanto quest’ultima possa rappresentare una validissima approssimazione, e con il trascorrere del tempo lo imparo ogni giorno dalle esperienze di vita e di clinica. La meraviglia della vita consiste proprio nel suo sfuggire a definizioni esaustive, chiare e univoche e questa impossibilità di ridurla a qualcosa di delineato e nitido ci intimorisce: da qui la ricerca affannosa e affannata delle parole giuste, dei nomi corretti, quando in realtà, spesso, saremmo chiamati ad abitare il mistero, il paradosso, l’unicità della nostra persona e identità al di là di facili, rassicuranti ma spesso riduttive definizioni.

Ed ecco allora che siamo nuovamente davanti ad un paradosso: da un lato la ricerca delle parole giuste, buone, dette bene, scritte bene, scelte con cura; dall’altro l’altro la consapevolezza che non ci saranno mai le parole perfette o parole a sufficienza per dire chi siamo, cosa sentiamo, per narrare di noi e della nostra storia, parole capaci di arrivare all’altro esattamente come io le pensate, sentite e lasciate andare, perché quelle parole potrebbero evocare nell’altro che le accoglie pensieri, sentimenti e vissuti altri, anzi dell’altro. 

Come si risolve il paradosso? Non  lo so, mi dispiace di non saperLe dare la risposta che vorrebbe e che vorrei anche io. Ma credo che il paradosso non si risolva. Il paradosso si abita. Il mistero si attraversa. 

Si sta.

Nel mio primo articolo del blog, Voce del Verbo RI-cominciare, da Lei tanto amato, non si aspettava di trovare il termine di-sci-plì-na. Lo scrivo nella forma estetica che più si avvicina simbolicamente al fastidio che questa parola può provocare, e di certo non solo a Lei. È una parola poco felice anche nel suono: la presenza di molte vocali chiuse non aiuta. Ma il motivo per cui non le piace e non piace a molti, ha certamente origini più profonde e antiche, che mi sento di ipotizzare condivisibili da tanti se non da tutti, sia per esperienze di vita concreta, sia per la posizione che la disciplina ha nell’immaginario collettivo. La associamo a rigidità, frustrazione, dovere, premi, punizioni, colpa, gerarchia, sottomissione… e chissà quanto altro, ma comunque sempre frutto di un’associazione inconscia che nulla dice della parola in sé, e tutto di noi e delle nostre esperienze di vita.

Dunque abitare il paradosso significa in questo specifico caso divenire consapevoli del conflitto che abita in noi e che la parola ha in qualche modo fatto risalire in superficie, perché se riusciamo a farlo emergere ne saremo meno soggiogati. Possiamo poi cercare parole diverse, parole nuove, parole buone che parlino al nostro cuore e del nostro cuore, che parlino per noi e di noi. Perché non rinnovare il nostro vocabolario come facciamo con altri aspetti della nostra vita? Togliendo termini che non sentiamo affini, aggiungendone altri, riducendo l’uso di quelli troppo ricorrenti che magari hanno perso anche il significato specifico originario, e aumentando l’uso di altri più consoni o corretti. 

Abbiamo molte possibilità, abbiamo sempre molte possibilità, ma quello che conta è non confondere la forma con la sostanza, la via che scegliamo di percorrere con la meta, il metodo con l’obiettivo. Posso avere forme, vie e metodi molto diversi, a parità di sostanza, meta e obiettivo, ma se li confondo mi perderò per strada.

La invito dunque a chiedersi: non mi piace il termine  di-sci-plì-na per quello che evoca, e dunque quanto ho appena scritto può essere utile spunto di riflessione, o non mi piace il concetto di disciplina? In quest’ultimo caso è necessario invece non fermarsi all’involucro ma tornare alla sostanza, al contenuto, al cuore della parola.

Abbiamo tutti bisogno di disciplina, nella nostra vita individuale e nella nostra vita sociale. Senza disciplina vivremmo in balia delle nostre pulsioni e dei nostri istinti, con delle ripercussioni disastrose su tutti i piani. Disciplina deriva dal latino discere, ovvero imparare, educare. E tutti abbiamo proprio bisogno di imparare, dis-imparare per re-imparare, educare ed educarci tutta la vita, perché per tutta la vita saremo posti di fronte alla scelta tra due o più strade, comportamenti, emozioni o decisioni da prendere, e per scegliere senza troppo tormento e in una direzione sufficientemente sana, dobbiamo aver stabilito la nostra Regola, quell’insieme di principi e valori che ci orientano e che orientano il nostro comportamento, aiutandoci come una bussola a non perderci, e facendo sì che anche nella tempesta la nostra barchetta rimanga, o almeno provi a rimanere, ancorata al fondale. Parlo anche di piccoli comportamenti, di piccoli gesti quotidiani con i quali rinnovo la fedeltà ai miei valori e ai miei obiettivi, e in ultima analisi, la fedeltà a me stessa. Senza una sana autoregolazione non possiamo prenderci cura di noi e rischiamo la deriva. Siamo chiamati a regolarci se vogliamo vivere una vita piena e in salute, sia dal punto di vista fisico, sia dal punto di vista psichico, sia dal punto di vista spirituale, e a chiedere aiuto alle persone giuste e nei posti giusti quando non ci sentiamo in grado di farlo. Siamo chiamati a trasmettere alle giovani generazioni l’importanza della disciplina e di sana capacità di autoregolazione e come sempre il modo migliore per trasmetterla è incarnarla.

Quello che si dice poco, e io concludo questa mia proprio dicendolo a gran voce, è che questa regola, questa disciplina perché non perda il suo valore, per essere vissuta e non solo dichiarata, devo avere due caratteristiche imprescindibili: la prima è essere radicata su un principio d’amore e di bene, la seconda è essere oggetto di una scelta personale. Qualunque regola, legge, indicazione che non sia un atto sostanziale d’amore per se stessi e per l’altro è destinata a trasformarsi in mera direttiva castrante e frustrante, di cui non si intravvede il senso e che dunque si abbandonerà quanto prima, proprio perché, in una struttura sana di personalità, si sceglie di accogliere, aderire e formulare, regole che siano per il mio bene e per il bene dell’altro. La bontà di una regola, di una disciplina, di un codice etico, non sono date una volta per tutte, non possono esserlo, proprio per quanto ho appena scritto. Per non perderne il valore profondo, le radici sane che le hanno generate, devo vangare il terreno ciclicamente, ripulirlo dalle erbacce, potare i rami secchi, e rinnovare con costanza le scelte e le promesse che ho fatto a me stessa.

Spero di averLe, almeno in parte, risposto.

A presto, e ancora grazie perché la Sua lettura così attenta mi ricorda che queste mie parole , scelte con tanta cura, troveranno accoglienza.


Maria Grazia 




Note personali

Mi chiamo Maria Grazia Calabrò.

Sono psicologa, psicoterapeuta e specialista in psicologia clinica.

Prima di diventarlo ho conseguito una laurea in Scienze della Comunicazione (ind. Comunicazioni di massa): comunicare è tutt’ora una mia grande passione. Anche una necessità.

Lavoro a Torino e online, con adulti, anziani, coppie e adolescenti.

Mi occupo di supervisione organizzativa e clinica a gruppi e singoli, e di formazione.

Tutelo in massimo grado la privacy di tutti, anche la mia, dunque non troverete mai nessun riferimento, neanche indiretto o implicito, ai miei/alle mie pazienti, e a tutte le situazioni che seguo in supervisione. Di conseguenza i testi che scrivo possono contenere riferimenti a fatti o persone frutto di fantasia, mentre saranno sempre vere e reali le riflessioni psicologiche e introspettive che da essi scaturiscono, in quanto ‘mie’.



Contatti:

Maria Grazia Calabrò

Via san Secondo 7 bis

10128 Torino

Cell. 3385296452

E-mail mgcalabro@hotmail.com

Instagram: @maria_grazia_calabro.psy




Data pubblicazione: 29 gennaio 2022


giovedì 23 dicembre 2021

Lettera di Natale

25 Dicembre 2021 

Lettera di Natale 


Carissimi,

Questa lettera è per Voi che mi avete scelta come vostra psicoterapeuta, che mi leggete con tanta attenzione o che mi ascoltate con il cuore e la mente aperti.

Desidero ringraziarVi e farVi sapere che siete per me un vero dono, e che per quanto non possa e non voglia fare riferimenti personali, mentre scrivo penso a ciascuno di Voi e per ciascuno di Voi saprei bene cosa chiedere in dono: che poteste guardarvi con i miei occhi. Sì, chiedere, perché sono consapevole di non poter essere io a donarvi ciò di cui avete bisogno. Ma posso accompagnarvi e aiutarvi a fare luce sui vostri bisogni, a dare loro nome e soprattutto dignità, attraverso la nostra relazione asimmetrica, professionale, ristretta in confini tanto difficili da comprendere, quanto necessari, eppure cosi profonda e capace di trasformarci. 

Perché anche io mi trasformo stando in relazione con ciascuno di Voi, ed è questa la magia: potersi incontrare nel profondo, lasciare che le anime si sfiorino, e che l’incontro non ci lasci mai come ci ha trovati.

Mi sento fortunata ad avervi incontrati, e vivo la fine di ogni percorso, già avvenuta o che primo poi dovrà avvenire, come una separazione che profuma di autonomia e di forza interiore ritrovata e risanata, ma che non per questo è meno dolorosa. Quando penso a questa parte difficile del mio meraviglioso lavoro, alla quale spesso mi preparo interiormente e spiritualmente con introspezione e accettazione del mistero, cerco di spostare l’attenzione dalla sofferenza di tutti questi lutti che si ripetono alla gratitudine profonda per la possibilità che mi è stata data di conoscerVi e di poter comunicare a un livello cosi profondo. Credetemi se Vi dico che la nostra relazione non ha nulla di meno, in termini di intensità e valore, rispetto alle altre che intesso nella vita di tutti i giorni. 

Al contrario.

Ma una relazione di cura, nel senso più o meno stretto di questa espressione, per essere tale necessita di confini. So, lo sento, che spesso questo aspetto Vi crea fastidio e frustrazione, e Vi induce talvolta a ingenui tentativi di superamento dei limiti o a alla messa in atto di inconsce rivendicazioni: insieme lavoriamo sugli uni e sulle altre, proprio come si fa con un impasto di farine grezze, e lo facciamo a più riprese, lasciando lievitare, occupandoci poi di altro, per poi tornare a a rinfrescare l’impasto che, ne sono certa, diverrà alla fine buon pane per tutti noi. 

Benediciamo, dunque, questi confini, che ci tolgono ma che ci danno, e che ci consentono di incontrarci nelle parti più profonde ma di farlo in modo sicuro, sano e trasformativo.

Forse li ho appena superati io questi limiti, in punta di piedi, con questa mia lettera, dono di Natale per voi, personale pur nella sua timidezza, per il solo tempo necessario a dirVi grazie, per la fiducia, per la stima e per il bene che mi volete. Sappiate che tutto questo lo sento e lo ricambio: fiducia, stima e bene. Un grande bene e una grande voglia di bene.

Concludo questa mia per Voi, con l’augurio che possiate in questo Natale accorgerVi di quanto di buono c’è nella vostra vita e degli sguardi che Vi circondano: il mio è colmo di stupore e di gratitudine.

Custodisco uno spazio in me per ciascuno di Voi, e Vi sono vicina anche nell’apparente distanza. 

Buon Natale,


Maria Grazia


giovedì 25 novembre 2021

Del nostro essere ABBANDONABILI

 Del nostro essere abbandonabili


Mio caro e giovane amico,

saperti tra il mio pubblico di lettori è per me sempre motivo di onore misto a meraviglia, che diviene spinta a dire bene, magari poco, ma bene, con profondità e rispetto, consapevole di quanto ci si possa reciprocamente trasformare con le parole. Grazie, dunque, per la fiducia e la stima che mi accrediti: mi fanno sentire meno la fatica di un lavoro che mi appassiona ma che mi chiede molto, e mi riempiono il cuore di una gioia che scalda e rinfranca l’anima.

Ho acquistato di recente l’ultimo libro di Chandra Candiani,  Questo immenso non sapere (2021) , e per puro caso mi sono imbattuta in una presentazione in diretta Facebook che, se vuoi, puoi andare a cercare e rivedere. L’autrice, con tutta la grazia, la profondità ma anche la freschezza che la contraddistingue, ha letto alcuni passi del suo libro al pubblico e uno, tra i molti, mi ha profondamente colpito :


Ho capito di essere una persona abbandonabile. Non nel senso che non posso evitare l’abbandono, che mi è ovvio fin da bambina. Ma che lo considero una possibilità imminente e talvolta auspicabile. Un tempo pensavo di essere una che abbandona facilmente. Ora so che, anche se con dolore, sono abbandonatile. 

(Candiani, 2021, pag, 97)


L’abbandono esiste, e questa è una certezza. 

Sei giovane, ma non è detto che tu non ne abbia già fatto esperienza. Certamente ne farai. 

Spunta nei terreni più disparati e può assumere forme infinite, sfuggenti a qualsivoglia tentativo di classificazione. I più dolorosi sono gli abbandoni invisibili, dotati di una consistenza che schiaccia ma che sfugge ai sensi umani, abbandoni che oltre a subire devi, così parrebbe, anche spiegare, motivare, quasi giustificare agli occhi di quegli altri che vedono solo ciò che le pupille consentono e ignorano ciò che il cuore mostra. Come se non bastasse ciò che si sente, ma lo si dovesse provare davanti a un tribunale bizzarro, deputato a emettere sentenze di colpa e a sancire la legittimità o meno di una sofferenza, sulla base di chissà quali criteri. Ma la sofferenza ha una sua intrinseca legittimità, un non so che di sacro, che si può decidere di interrogare, rivedere, analizzare e magari narrare in modo nuovo, ma solo dopo avergli dato accoglienza, rispetto e dovuto riconoscimento.

È più facile parlare di abbandono quando è oggettivo, sotto gli occhi di tutti. Le storie di animali abbandonati ci lasciano senza parole, o almeno dovrebbero, sempre che il nostro cuore non sia già indurito. Diverso e più difficile da mostrare la sensazione di essere soli e abbandonati a noi stessi quando in realtà siamo circondati da tante persone e magari anche inseriti in un nucleo , sia esso familiare, lavorativo, amicale o chissà cos’altro, apparentemente perfetto. Eppure accade. 

Accade di essere non pensati. 

Accade di essere non contenuti nella mente di chi ci ha messo al mondo.

Accade di essere trascurati da chi è affianco a noi tutto il santo giorno, ogni santo giorno.

Accade di essere lasciati soli in balia delle difficoltà, delle nostre angosce, proprio nel momento del bisogno.

Accade che il nostro ritorno non sia atteso.

Accade di essere rifiutati.

L’abbandono, dunque, accade. E se accade quando si è piccoli, nell’infanzia, è cosi difficile da digerire e da tollerare, così pericoloso,  che per salvarsi diventa quasi necessario accusarsi, pensare male di sé, attaccarsi o sforzarsi di essere come l’altro mi vorrebbe, perché questo altro non è un altro qualunque, ma un altro del cui amore si ha bisogno per poter sopravvivere, un altro la cui immagine va salvaguardata a tutti i costi dentro di sé: i bambini imparano a farlo molto  presto e da qui al considerarsi non degni di amore il passo è breve.

Brevissimo.

Ancora più breve quello che li porterà a divenire adulti mendicanti di un amore che spesso non riescono a trattenere perché convinti che si tratti di qualcosa di cui si debba essere degni e meritevoli, o di cui, quando malato, non riescono  a liberarsi, ma per gli stessi motivi.

L’essere abbandonabili di cui parla la Candiani, non ha nulla a che vedere con queste credenze fuorvianti: rappresenta, al contrario, una posizione sana, molto lontana da quella che ho appena descritto, oserei dire antitetica, una posizione radicata su una base di autenticità, su un sano e integro senso di sé, e su una concezione delle relazioni come frutto di una scelta libera e che libera, reciproca e rigenerante. 


Voglio dire che quando sento che non ci sono le condizioni per incontrarsi davvero, per intendersi senza troppa fatica,  << abbandonami >>  è un invito liberante. Non è obbligatorio tenermi, frequentarmi è facoltativo. E questo dà molta leggerezza e grazia all’incontro.

(Candiani, 2021, pag, 97)


Non entro tanto nel merito della formulazione dell’invito, <<abbandonami>>, che a tratti suona come come un imperativo esortativo, così meravigliosamente spiazzante nella sua formulazione da rischiare di indurci a identificare nell’altro colui che abbandona o che deve agire l’abbandono. Di fatto tutti possono abbandonare il campo, tutti ne hanno il diritto, e dovremmo abbandonare il campo per primi proprio noi, quando sentiamo di non essere voluti interamente per quello che siamo, quando sentiamo che non ci sono le condizioni per incontrarsi davvero e nemmeno la volontà di trovarle quelle condizioni,  senza attendere che sia l’altro a fare quel passo in nome di chissà quale difesa, pensiero, convinzione, speranza o presa di posizione.

Ma il grande regalo che ci fa questa pagina, caro giovane amico mio, è secondo me racchiuso nella fiducia con la quale è stata scritta e dalla quale sono sgorgate queste parole: una fiducia che riporta ad un sé sufficientemente (Winnicott, 1974) sano, integro e sacro, il mio e quello dell’altro, un sé che soffrirà forse di un dolore acuto e asciutto ma che non andrà in pezzi, non si sgretolerà e non verrà distrutto. Siamo stati addomesticati ad una concezione delle relazioni e dell’amore, soprattutto di coppia, come di qualcosa che ci tiene in vita, e non che arricchisce la nostra vita, con la conseguenza del pensare e sentire che senza l’altro non siamo nulla e non valiamo nulla. Se ti guardi intorno con occhio attento e disincantato troverai molte relazioni che si basano sul bisogno dell’altro, e non sul desiderio dell’incontro con l’altro, dello scambio, dell’arricchimento reciproco. 

Ti ricordi quando da piccino chiedevi ai bimbi come te: ‘Mi fai amico’? In realtà lo abbiamo chiesto tutti, e non sempre ci siamo sentiti accolti, e non sempre abbiamo accolto. Alcune volte abbiamo detto sì, e poi ignorato. Altre volte ci hanno risposto con un sì, per poi ignorarci. Succede. Il punto è che ci si sceglie. Sempre. Ogni giorno. E quando lo si dimentica la relazione si spegne poco a poco e talvolta rischia di diventare un palcoscenico nel quale ci si ritrova a recitare una parte, fino a quando almeno uno dei membri non trova la forza per sottrarsi alla messinscena e abbandonare il palco.

Che tu sia colui che trova questa forza, o colui che non è più voluto, certamente soffrirai, ma di un dolore che per quanto possa piegarti e ammutolirti, ti lascerà comunque intero, nella misura in cui non abbandonerai te stesso ma saprai custodire il tuo valore e quello della tua vita. Certamente sarà più facile se ci saremo sentiti completamente voluti, amati, accolti e benedetti nell’infanzia, ma sarà comunque possibile, grazie a buone relazioni correttive nel presente, che a volte, anche se non necessariamente, possono nascere in contesti professionali di cura.


Può fare molto male all’inizio, può atterrare ma poi piano piano si sente che sopra la testa e tutt’intorno si allarga un grande spazio libero. C’è più sfondo e un sentore appena accennato di nuove possibilità. L’odore è l’esatto opposto dell’odore di bruciato. Un profumo fresco di bucato appena steso, di pavimento appena spazzato e poi lavato. Con cura. Con le finestre aperte.

(Candiani, 2021, pag, 97)


Avrei voluto dirti molto altro. Delle benedizioni, per esempio, che possiamo sempre inviare a coloro che sono distanti da noi, per necessità o per scelta. Del rischio, che non devi assolutamente correre di confondere l’abbandono con la separazione sana e necessaria in quasi tutte le tappe evolutive per far sì che la vita proceda e faccia il suo meraviglioso corso. E di molto altro su cui certamente avremo modo di tornare nelle nostre conversazioni sino a tarda ora. Ma adesso, prima di congedarmi, vorrei condividere te un ultimo pensiero, solo in apparente contraddizione con quanto ho scritto sino ad ora… non temere. Se è vero che siamo tutti siamo abbandonabili, e lo è, e se è vero che che tutti abbiamo delle parti che ci rendono faticosi e non facili nella relazione, se tutto questo è vero, e lo è, allora in ultima analisi si tratta di scegliere.

Non abbandonare l’altro anche quando è poco amabile è una scelta.

Non abbandonare l’altro per le sue parti più ruvide, bensì tenerlo nella propria vita così com’è, nella sua interezza, è una scelta.

Non abbandonare l’altro alla prima difficoltà è una scelta.

E non abbandonare se stessi, mai, è la scelta migliore che si possa fare nella vita. Una promessa di fedeltà e di appartenenza da rinnovare continuamente.

Grazie ancora di essere qui, con me, adesso. Ne sono onorata. 


Maria Grazia




Note personali

Mi chiamo Maria Grazia Calabrò.

Sono psicologa, psicoterapeuta e specialista in psicologia clinica.

Prima di diventarlo ho conseguito una laurea in Scienze della Comunicazione (ind. Comunicazioni di massa): comunicare è tutt’ora una mia grande passione. Anche una necessità.

Lavoro a Torino e online, con adulti, anziani, coppie e adolescenti.

Mi occupo di supervisione organizzativa e clinica a gruppi e singoli, e di formazione.

Tutelo in massimo grado la privacy di tutti, anche la mia, dunque non troverete mai nessun riferimento, neanche indiretto o implicito, ai miei/alle mie pazienti, e a tutte le situazioni che seguo in supervisione. Di conseguenza i testi che scrivo possono contenere riferimenti a fatti o persone frutto di fantasia, mentre saranno sempre vere e reali le riflessioni psicologiche e introspettive che da essi scaturiscono, in quanto ‘mie’.


Riferimenti bibliografici:

Candiani C., QUESTO IMMENSO NON SAPERE, Torino, Edizioni Einaudi (2021)

Winnicott D., SVILUPPO AFFETTIVO E AMBIENTE: STUDI SULLA TEORIA DELLO SVILUPPO AFFETTIVO, Roma, Armando, 1974.


Contatti:

Maria Grazia Calabrò

Via san Secondo 7 bis

10128 Torino

Cell. 3385296452

E-mail mgcalabro@hotmail.com

Instagram: @maria_grazia_calabro.psy




Data pubblicazione: 25 novembre 2021





domenica 24 ottobre 2021

Voce del Verbo Ri-COMINCIARE

Voce del Verbo Ri-COMINCIARE


Cara Anna,

Mi è molto dispiaciuto constatare la Sua assenza alla scorsa diretta.

Purtroppo mi è impossibile riuscire a incrociare giorni e orari in modo da accontentare le esigenze di tutti. ma in questa mia per Lei ripercorrerò i punti più importanti e ciò mi aiuterà a tenere traccia degli incontri e far sì che nessuno si senta lasciato indietro.

Perché ‘Voce del verbo Ri-cominciare’? Perché ricominciare è un verbo evocativo. Pregno di senso e di significati. Ricorda l’inizio della scuola, così carico di aspettative, sogni, desideri anche molto lontani dal mondo scolastico… ma pur sempre intrisi di quel desiderio di ripartire in modo nuovo che quando riusciamo a mantenere vivo sposta l’ombra della depressione e della mancanza di senso. Non credo di averlo  mai detto negli incontri che ho tenuto sino ad ora, ma conosco una bambina che ha inventato un gioco meraviglioso, o che a me pare tale ogni volta che ci penso o lo racconto: il gioco della vita nuova. Consiste in questo: ricominciare ogni giorno da capo una vita nuova, che cancella  i problemi, le brutture, gli errori di ieri e scioglie tutti i nodi. Se dovessi usare un’immagine ricorrerei a quella di una scrittrice che ogni giorno scrive la prima pagina della sua storia di vita. È un gioco molto più concreto di quanto non sembri, difficile da descrivere, e non così usuale per una bambina: si intravvede una buona base di tormento, cosi come una forte impronta del pensiero magico tipica dei piccini, e un grande desiderio di controllo e onnipotenza. Tuttavia continuo a pensare che sia di fondo un gioco meraviglioso che le permette di salvarsi oggi e le permetterà di salvarsi in futuro se saprà mantenerlo vivo, con gli opportuni aggiustamenti che ‘da grandi’ è necessario fare. Sostanzialmente la mia diretta è stata il tentativo di condividere il significato profondo di questo gioco magico con i partecipanti, e questa mia lettera insiste sulla stessa falsariga. 

Che bello sarebbe e quanto farebbe la differenza se ogni giorno cominciassimo una vita nuova. Invece questo accade raramente. Quando ricominciamo, il più delle volte non cominciamo proprio nulla di nuovo, ma ci limitiamo a ripetere copioni già fatti, routines che hanno smarrito il loro senso, storie di vita vissuta, ferite già subite e già inferte, perché per quanto insano ciò che conosciamo ci rassicura. Quel RI, che dovrebbe portarci a onorare il nostro passato, ad esserne grati e a celebrarlo, perché ha contribuito a farci diventare chi siamo oggi, lo abbiamo utilizzato come sillaba iniziale di una mera RIpetizione di qualcosa di sempre uguale a se stesso, che ci rassicura, ma che ci spegne. Il verbo cominciare deriva dal latino inire, ovvero entrare dentro le cose, ma noi tutti spesso ci limitiamo ad affacciarci per non investire troppo e tenere ben a distanza le responsabilità, finendo di lì a poco col chiudere bruscamente la finestra dalla quale ci eravamo poc’anzi sporti.

Io Le auguro davvero di ricominciare ogni giorno, di scegliere consapevolmente in quale dentro avventurarsi ma di farlo con con il cuore e con la mente aperti, con quel tanto di coraggio che serve necessariamente per dare inizio a qualunque cosa abiti il Suo cuore, e con quella dedizione e quell’impegno che ci fanno sporcare le mani rendendo sopportabile e sostenibile la fatica del buon lavoro.

Ho deciso di chiamare ‘Voglia di bene’ il blog al quale questa lettera dà l’avvio.

È un omaggio a Scott Peck, autore del libro omonimo (in realtà è il blog che è omonimo del libro!), alla lettura del quale, fatta in adolescenza, devo molto, moltissimo, forse la scoperta di ciò per cui sentivo di essere chiamata e che oggi ho trasformato nel mio lavoro, e soprattutto l’incontro con qualcuno che parlava la mia stessa lingua e nel quale mi sono riconosciuta e ritrovata. Ho sempre pensato che queste tre parole fossero il modo migliore per dire di me, per dire chi sono.

L’ho recentemente ripreso in mano e nei primi capitoli ho ritrovato una perla che condivido ora con Lei perché possa guidarLa nelle Sue scelte.


La vita è difficile.

Questa è una grande verità, forse la più grande. […] La vita ci pone una serie infinita di problemi. […] Per risolvere questi innumerevoli problemi abbiamo comunque a disposizione alcuni validi strumenti che nel loro insieme vanno sotto il nome di disciplina” (S. Peck, 1978). 


Ma la disciplina buona, quella necessaria per continuare quanto si è cominciato o ricominciato, se da un lato è facilitata dall’aver avuto validi esempi nella propria vita, spiega l’autore, dall’altro lato ha a che fare con la consapevolezza del proprio valore, che può certamente passare dall’esempio delle persone che hanno abitato la nostra infanzia, ma per la quale l’esempio non basta: serve l’amore. Una sana disciplina affonda le sue radici nell’amore per noi stessi e se abbiamo avuto la fortuna di essere stati amati sarà più semplice mantenerla, mentre una disciplina che non affonde le sue radici nell’amore è destinata a durare poco e a odorare di sforzo fine a se stesso, che non è mai un buon odore.

Le auguro dunque di ricominciare da Lei e dal Suo cuore, di scegliere con coraggio, con azioni che partano dall’anima, cosa tenere e cosa lasciar andare e di fare, comunque e sempre, vita nuova.

A presto!



Maria Grazia




Note personali

Mi chiamo Maria Grazia Calabrò.

Sono psicologa, psicoterapeuta e specialista in psicologia clinica.

Prima di diventarlo ho conseguito una laurea in Scienze della Comunicazione (ind. Comunicazioni di massa): comunicare è tutt’ora una mia grande passione. Anche una necessità.

Lavoro a Torino e online, con adulti, anziani, coppie e adolescenti.

Mi occupo di supervisione organizzativa e clinica a gruppi e singoli, e di formazione.

Tutelo in massimo grado la privacy di tutti, anche la mia, dunque non troverete mai nessun riferimento, neanche indiretto o implicito, ai miei/alle mie pazienti, e a tutte le situazioni che seguo in supervisione. Di conseguenza i testi che scrivo possono contenere riferimenti a fatti o persone frutto di fantasia, mentre saranno sempre vere e reali le riflessioni psicologiche e introspettive che da essi scaturiscono, in quanto ‘mie’.


Riferimenti bibliografici:

Scott Peck M., VOGLIA DI BENE, Edizioni Frassinelli (1978)


Contatti:

Maria Grazia Calabrò

Via san Secondo 7 bis

10128 Torino

Cell. 3385296452

E-mail mgcalabro@hotmail.com

Instagram: @maria_grazia_calabro.psy 




Data pubblicazione: 24 ottobre 2021


PAROLE CHE DISTURBANO: /Au-to-no-mìa/

  PAROLE CHE DISTURBANO /Au-to-no-mìa/ Carissimi, questa lettera  è per voi che non avete potuto partecipare all’ultimo incontro, ma a...